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Trump, Obama e il Video dell’Arresto IA: Come la Propaganda Deepfake Sta Riscrivendo le Regole della Politica

L’Immagine che Infiamma la Rete: Un Arresto Mai Avvenuto alla Casa Bianca

Una domenica di fuoco sulla scena politica americana, un’immagine deflagra su Truth Social, la piattaforma di Donald Trump. Non è una dichiarazione, non è un comizio, ma un video. E non un video qualsiasi. Le immagini, generate da un’intelligenza artificiale, mostrano l’ex Presidente Barack Obama all’interno dell’Ufficio Ovale, lo stesso che ha occupato per otto anni, mentre viene ammanettato da agenti dell’FBI. A pochi metri di distanza, seduto alla Resolute Desk, un Donald Trump digitale osserva la scena con un sorriso compiaciuto. Il filmato, breve ma potente, prosegue mostrando Obama dietro le sbarre, vestito con la classica tuta arancione da carcerato.  

Il video, che sembra essere originato sulla piattaforma TikTok, è stato ricondiviso da Trump senza alcun commento personale, ma era accompagnato da una didascalia lapidaria: “No one is above the law” (“Nessuno è al di sopra della legge”). La scelta di questa frase è tutt’altro che casuale. Il montaggio si apre proprio con una sequenza di importanti figure democratiche, tra cui il Presidente Joe Biden, che pronunciano solennemente quelle stesse parole. Subito dopo, a sottolineare l’intento beffardo, appare sullo schermo una versione clownesca di Pepe the Frog, una nota meme dell’alt-right, che suona un naso rosso come a deridere la presunta ipocrisia di quelle affermazioni.  

La reazione è stata immediata e polarizzata. Sulla stessa Truth Social, i sostenitori di Trump hanno celebrato il post, con commenti come “Ho assolutamente votato per questo”, vedendovi una forma di giustizia poetica. Dall’altra parte, i critici hanno condannato la mossa, definendola “profondamente irresponsabile” e un pericoloso esempio di disinformazione, soprattutto per l’assenza di un qualsiasi disclaimer che ne chiarisse la natura fittizia.  

La strategia di Trump in questa operazione è sottile e calcolata. Condividendo un contenuto esplosivo creato da altri, si posiziona a una distanza di sicurezza. Non è lui l’autore del deepfake, è semplicemente un amplificatore. Questa mossa gli consente di mantenere una sorta di “negabilità plausibile”, potendo affermare di aver semplicemente condiviso qualcosa di “interessante” o provocatorio trovato in rete. Allo stesso tempo, l’atto della condivisione da parte di una figura del suo calibro trasforma il video in una notizia globale, costringendo media e avversari a parlarne e, così facendo, a diffonderne il messaggio. Per la sua base, il significato è esplicito e non richiede spiegazioni. Per i detrattori, il suo silenzio è un’ammissione di malizia. In questo modo, Trump riesce a comunicare simultaneamente su due canali diversi, infiammando la sua base e provocando i suoi oppositori, il tutto senza esporsi direttamente all’accusa di aver creato e diffuso disinformazione.

Il Paradosso del “Re della Legge e Ordine”: Proiezione e Guerra Narrativa

L’ironia alla base del video è tanto profonda quanto sfacciata. Donald Trump, il primo ex presidente nella storia degli Stati Uniti a dover affrontare un’incriminazione federale, oltre a una lunga serie di altre accuse penali e civili, tra cui una condanna per abuso sessuale e diffamazione , utilizza lo slogan “Nessuno è al di sopra della legge” per attaccare il suo predecessore. Questo gesto si inserisce perfettamente in un manuale di tattiche politiche e psicologiche: è un misto di proiezione, in cui si attribuiscono ad altri i propri difetti o le proprie colpe, e di “whataboutism”, una manovra retorica per deviare l’attenzione dalle proprie controversie sollevandone altre, vere o presunte, a carico degli avversari.  

Questa mossa non è un fulmine a ciel sereno, ma il culmine di una narrazione che Trump ha costruito meticolosamente per anni: quella della “weaponization of the justice system”, la strumentalizzazione del sistema giudiziario. Secondo questa tesi, il Dipartimento di Giustizia (DOJ) e l’intera comunità di intelligence non sarebbero più organi imparziali dello Stato, ma armi politiche brandite dall’amministrazione precedente e dai suoi alleati per perseguitare lui e i suoi sostenitori. Trump ha ripetutamente definito i processi a suo carico come “la più grande caccia alle streghe di tutti i tempi” e ha persino emanato ordini esecutivi, una volta tornato in carica, per “porre fine alla strumentalizzazione del governo federale” e indagare sulle presunte colpe dell’amministrazione precedente.  

Il video deepfake di Obama non è quindi un atto isolato, ma un potente tassello all’interno di un ecosistema di disinformazione ben più vasto e coordinato. A rafforzare questa narrazione contribuiscono anche figure a lui vicine. Ad esempio, Tulsi Gabbard, ex esponente democratica ora vicina all’orbita di Trump, ha affermato di possedere prove “schiaccianti” di una “cospirazione traditrice” diretta da Obama stesso per inventare la storia della collusione Trump-Russia, con l’obiettivo di sabotare la sua presidenza prima ancora che iniziasse.  

L’obiettivo finale di questa complessa operazione di propaganda non è, realisticamente, convincere l’opinione pubblica che Barack Obama debba essere arrestato. L’intento è molto più profondo e sistemico: erodere la fiducia nel principio stesso dello “stato di diritto”. La strategia mira a trasformare questo ideale, fondamento di ogni democrazia liberale, da un principio universale e imparziale a un mero strumento di potere partigiano. Il ragionamento che viene instillato nei sostenitori è semplice: se Trump è sotto processo in base al principio che “nessuno è al di sopra della legge”, allora per difenderlo bisogna invalidare il principio stesso. Mostrando che questo stesso slogan può essere arbitrariamente rivolto contro i suoi avversari, anche solo in un video falso, il messaggio implicito diventa: “Vedete? Non si tratta di giustizia, ma di chi ha il potere di puntare la pistola”. Se questa narrazione attecchisce, non solo aiuta Trump a sopravvivere politicamente ai suoi guai legali, ma infligge una ferita profonda alle fondamenta della democrazia americana, basata sulla fiducia dei cittadini in istituzioni giudiziarie neutrali e credibili. L’attacco a Obama diventa così un attacco per procura all’intero sistema.

La Fabbrica dei Sogni (e degli Incubi): L’Ascesa Inarrestabile dei Video IA

Per comprendere appieno la portata dell’incidente, è necessario spostare temporaneamente il focus dalla politica alla tecnologia che lo ha reso possibile. Il termine “deepfake” è una fusione di “deep learning” (apprendimento profondo), una branca dell’intelligenza artificiale, e “fake” (falso). Queste illusioni digitali, un tempo confinate nei laboratori di ricerca o in nicchie di internet, sono diventate nel 2024 uno strumento potente e sempre più accessibile.  

Quest’anno ha segnato un punto di svolta. Aziende come OpenAI con il suo rivoluzionario modello Sora, Google con Veo 3, e una costellazione di startup agguerrite come Pika, Runway e Luma hanno rilasciato strumenti in grado di generare video fotorealistici e complessi partendo da semplici comandi testuali (prompt). La tecnologia non si limita più a scambiare volti su video esistenti; ora può creare intere scene da zero, animare immagini statiche e persino generare voci sintetiche quasi indistinguibili da quelle umane. L’impatto va oltre la semplice creazione di contenuti: l’IA sta trasformando l’intero processo produttivo, automatizzando l’editing video basato su testo, la traduzione e il doppiaggio in decine di lingue, e persino la scrittura di sceneggiature.  

I politici e le celebrità rappresentano i bersagli ideali per questa tecnologia. Il motivo è puramente legato ai dati: esistono immense quantità di materiale video, audio e fotografico di dominio pubblico che li ritraggono. Questi dati costituiscono il perfetto materiale di addestramento per i modelli di IA, che possono così imparare a replicare le loro espressioni facciali, la loro voce, i loro gesti e i loro manierismi con una fedeltà impressionante.  

Il video di Obama, quindi, non è un caso isolato, ma l’esempio più eclatante di una tendenza in rapida crescita. Durante le primarie repubblicane, la campagna di Ron DeSantis aveva già utilizzato immagini generate dall’IA per mostrare Donald Trump mentre abbracciava affettuosamente il dottor Anthony Fauci, una figura invisa a gran parte dell’elettorato conservatore. In New Hampshire, decine di migliaia di elettori hanno ricevuto una robocall con una voce deepfake del Presidente Biden che li esortava a non votare alle primarie.  

Questo scenario rivela un cambiamento fondamentale nell’equilibrio di potere della propaganda. Se in passato la creazione di disinformazione visiva sofisticata richiedeva risorse e competenze tipiche di grandi campagne politiche o di agenzie di intelligence statali, oggi la situazione è radicalmente diversa. La “democratizzazione” di questi strumenti potenti significa che chiunque abbia un’idea e l’accesso a un software, spesso a basso costo o addirittura gratuito, può creare contenuti potenzialmente virali. Il fatto che il video di Obama sia nato su TikTok ne è la prova lampante. Si sta affermando un modello di propaganda a due stadi: una creazione “dal basso” (bottom-up) da parte di attivisti, troll o “creatori” indipendenti, seguita da un’amplificazione “dall’alto” (top-down) da parte di figure di enorme risonanza come Trump. Questo rende la regolamentazione un’impresa quasi disperata: mentre si possono sanzionare le campagne ufficiali, è quasi impossibile fermare la produzione decentralizzata e caotica di questi contenuti. Nell’era dei deepfake, il vero potere non è più solo creare il falso, ma avere la piattaforma e l’influenza per renderlo rilevante.  

Il “Dividendo del Bugiardo”: Quando la Verità Diventa un’Opinione

Al di là dell’inganno diretto, la proliferazione dei deepfake alimenta una minaccia molto più subdola e corrosiva per la democrazia: il cosiddetto “liar’s dividend”, o “dividendo del bugiardo”. Coniato dagli studiosi di diritto Robert Chesney e Danielle Keats Citron, questo concetto descrive un fenomeno perverso: più il pubblico diventa consapevole che video e audio possono essere falsificati in modo convincente, più diventa facile per i malintenzionati sfuggire alle proprie responsabilità negando l’autenticità di prove reali, sostenendo semplicemente che si tratti di un deepfake.  

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Questa tattica si sposa perfettamente con la strategia politica, attribuita a strateghi come Steve Bannon, di “inondare la zona di merda” (flood the zone with shit). L’obiettivo non è convincere il pubblico di una specifica menzogna, ma generare un cinismo così diffuso e una confusione così profonda da rendere le persone scettiche verso qualsiasi fonte di informazione, erodendo la fiducia nelle istituzioni (media, magistratura) incaricate di accertare la verità. In un ambiente del genere, la verità fattuale perde il suo status privilegiato e diventa semplicemente un’opinione tra le tante.  

Gli esempi concreti di questo fenomeno sono già numerosi. In Turchia, un candidato politico messo di fronte a un video compromettente autentico ha potuto negare tutto, sostenendo che fosse un deepfake. In India, un politico ha affermato che registrazioni audio in cui criticava i membri del suo stesso partito fossero state generate dall’IA, anche se un’analisi forense ha suggerito che almeno una fosse autentica.  

Studi psicologici e politici confermano l’efficacia di questa dinamica. Una ricerca ha dimostrato che i deepfake, pur non essendo necessariamente più efficaci di altre forme di fake news nel manipolare le opinioni, agiscono potentemente sul “ragionamento motivato dal partito” (partisan-motivated reasoning). Le persone sono intrinsecamente più propense a credere a informazioni, anche false, che confermano le loro convinzioni preesistenti e a etichettare come false le notizie autentiche ma negative per il proprio schieramento politico, indipendentemente dalla qualità delle prove.  

Applicato al caso in esame, il video di Obama non serve tanto a ingannare gli elettori facendogli credere a un arresto reale. Il suo scopo è duplice. Da un lato, rafforza una narrazione già consolidata tra i sostenitori di Trump (“i Democratici sono corrotti e meritano il carcere”). Dall’altro, e in modo più strategico, prepara il terreno per il futuro. Abituando il pubblico all’idea che tutto può essere falsificato, Trump e i suoi alleati si garantiscono la possibilità di negare qualsiasi prova video o audio autentica che potrebbe emergere contro di loro, sfruttando appunto il “dividendo del bugiardo”.

L’implicazione a lungo termine è devastante. Il “liar’s dividend” non si limita a proteggere i bugiardi; disarma attivamente coloro che cercano la verità, come giornalisti investigativi, magistrati e storici. Quando un’inchiesta presenta prove video o audio schiaccianti, il politico di turno può semplicemente liquidarle come un deepfake. Il dibattito pubblico si sposta immediatamente dalla sostanza delle accuse alla veridicità del mezzo, una discussione tecnica, spesso inconcludente, che annebbia la questione centrale. Ripetuto nel tempo, questo processo svuota di autorità il giornalismo e il sistema giudiziario. La verità non è più un fatto da accertare, ma una “versione” in competizione con altre, dove a vincere non è la più accurata, ma la più potente e la più ripetuta. È il passaporto per una democrazia post-verità, potenziata dall’intelligenza artificiale.

La Legge Insegue la Tecnologia: La Difficile Corsa per Regolamentare il Caos

Di fronte a questa minaccia crescente, le istituzioni hanno iniziato a muoversi, ma la loro corsa per regolamentare il caos digitale assomiglia a quella di un corridore che cerca di raggiungere un treno ad alta velocità già in piena corsa. Negli Stati Uniti, sono state presentate numerose iniziative legislative sia a livello federale che statale per arginare l’uso dei deepfake in contesti elettorali. Stati ideologicamente diversi come California, Minnesota, Texas e Washington hanno già approvato leggi in materia, e altre proposte sono in discussione in Pennsylvania e in molti altri stati.  

Gli approcci normativi si concentrano principalmente su tre aree: l’obbligo di trasparenza, che impone di etichettare chiaramente i contenuti generati o alterati dall’IA; le tecniche di autenticazione, come il watermarking (filigrane digitali) o la registrazione di metadati per tracciare l’origine e le modifiche di un contenuto; e le restrizioni dirette, che vietano la creazione e la distribuzione di deepfake ingannevoli, specialmente in prossimità delle elezioni.  

Tuttavia, queste leggi si scontrano con un ostacolo formidabile: il Primo Emendamento della Costituzione statunitense, che protegge la libertà di espressione. La sfida è creare una legislazione che sia precisa come un “bisturi” per colpire solo i contenuti dannosi, senza diventare un “martello” che schiaccia anche forme legittime di espressione come la satira, la parodia o la critica politica. Un giudice federale ha recentemente bloccato una legge californiana proprio su queste basi, definendola uno “strumento contundente” che soffoca in modo incostituzionale il libero scambio di idee.  

In questo vuoto normativo, gran parte della responsabilità ricade sulle piattaforme di social media. La loro risposta, tuttavia, è stata frammentata e in continua evoluzione. Un caso emblematico è quello di Meta (proprietaria di Facebook e Instagram). Basandosi sulle raccomandazioni del suo Oversight Board (una sorta di organo di supervisione indipendente), l’azienda ha abbandonato la sua precedente politica, che prevedeva la rimozione di un numero limitato di video manipolati, a favore di un approccio basato sull’etichettatura. Ora, una gamma molto più ampia di contenuti generati o alterati dall’IA viene contrassegnata con un’etichetta “AI info”. L’idea è che fornire trasparenza e contesto sia un approccio “meno restrittivo” e più rispettoso della libertà di parola rispetto alla censura diretta.  

L’efficacia di queste etichette, però, è tutta da dimostrare. Nel caso di un contenuto come il video di Obama condiviso da Trump, un’etichetta “Generato con IA” rischia di essere largamente inutile. Il pubblico di destinazione sa già che il video è falso; non è questo il punto. L’obiettivo non è l’inganno letterale, ma la propaganda, la demonizzazione dell’avversario e il rafforzamento di una narrazione di parte. L’etichetta non fa che confermare ciò che è ovvio, senza intaccare minimamente la potenza del messaggio politico. Inoltre, piattaforme alternative come Truth Social, dove il video è stato originariamente amplificato, operano con regole molto più lasche, creando di fatto dei “paradisi sicuri” per questo tipo di contenuti, al di fuori della portata delle policy delle Big Tech.  

La seguente tabella riassume gli approcci delle principali piattaforme nel 2024, evidenziando la mancanza di uno standard unificato.

Regolamentazione IA: L’Approccio delle Piattaforme a Confronto (2024)

PiattaformaApproccio PrincipaleObbligo di Disclosure per Annunci PoliticiNote Specifiche
Meta (Facebook, Instagram)Etichettatura (“AI info”)Sì, gli inserzionisti devono dichiarare l’uso di IA per alterazioni significative.  Ha abbandonato la politica di rimozione per un approccio basato su etichette e contesto. L’etichetta può essere più prominente per contenuti ad alto rischio di inganno.  
YouTube (Google)Etichettatura e RimozioneSì, richiesto per gli annunci elettorali.  Richiede ai creator di dichiarare quando usano IA per creare contenuti realistici. Può rimuovere contenuti che violano le policy, come quelli sulla disinformazione elettorale.  
X (ex Twitter)Meno definitoLe policy sono state allentate dopo l’acquisizione, con una riduzione dei team di moderazione.  L’approccio è meno trasparente e più reattivo. La riduzione dei team di trust and safety ha sollevato preoccupazioni sulla capacità di gestire la disinformazione.  
TikTokEtichettatura e RimozioneSì, gli annunci politici a pagamento sono vietati, ma la policy si applica ai contenuti organici.Etichetta automaticamente i contenuti creati con effetti IA di TikTok. Richiede ai creator di etichettare altri contenuti realistici generati da IA. Rimuove i deepfake che violano le policy.  

Navigare nella Tempesta Perfetta: Media Literacy nell’Era della Post-Verità

Il video dell’arresto fittizio di Barack Obama, amplificato da Donald Trump, è molto più di una semplice fake news. È un atto sofisticato di guerra narrativa, un esempio da manuale di come una tecnologia potente possa essere sfruttata per attaccare un avversario politico, delegittimare le istituzioni democratiche e consolidare la propria base all’interno di un’ecologia mediatica sempre più frammentata e polarizzata.

La minaccia che ci troviamo ad affrontare è duplice. Da un lato, c’è il pericolo immediato e tangibile dell’inganno, la possibilità che contenuti falsi vengano presi per veri, influenzando opinioni e comportamenti. Dall’altro, e in modo molto più insidioso, c’è l’effetto corrosivo a lungo termine del “dividendo del bugiardo”, che non mira a sostituire una verità con una menzogna, ma a distruggere la possibilità stessa di distinguere tra le due, minando la fiducia in ogni forma di prova mediale e in ogni istituzione.

Guardando al futuro, la traiettoria è chiara: la tecnologia continuerà a progredire a un ritmo vertiginoso. Presto, i deepfake diventeranno indistinguibili dalla realtà a occhio nudo, e persino le analisi forensi faticheranno a tenere il passo. In questo scenario, le soluzioni puramente tecnologiche, come i software di rilevamento, e quelle puramente normative saranno sempre un passo indietro rispetto alla creatività e alla velocità dei malintenzionati.  

Se la tecnologia e la legge da sole non bastano, l’ultima e più importante linea di difesa risiede nella mente dei cittadini. La risposta più efficace a questa tempesta perfetta non è la censura, ma la resilienza; non è la paura, ma la consapevolezza. È fondamentale coltivare una robusta media literacy, un’alfabetizzazione mediatica che ci trasformi da consumatori passivi a interrogatori attivi di informazioni. Prima di credere, e soprattutto prima di condividere, dobbiamo imparare a porci domande critiche: chi ha creato questo contenuto? Qual è la sua fonte? Qual è il suo probabile intento? Quali emozioni cerca di suscitare in me?

La sfida è epocale e riguarda il cuore stesso del nostro contratto sociale. In un’era in cui la realtà stessa può essere fabbricata e distribuita alla velocità della luce, la capacità di esercitare il pensiero critico non è più un’abilità accademica, ma un requisito fondamentale per la sopravvivenza della democrazia. Dobbiamo esigere maggiore trasparenza e responsabilità sia dai nostri leader politici, affinché non abusino di questi strumenti, sia dalle piattaforme tecnologiche che ne amplificano la voce. La battaglia per la verità nell’era digitale non si vincerà con un algoritmo o con una legge, ma con milioni di menti allenate a dubitare, a verificare e a pensare.

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