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Thiago Elar: L’Ultimo Video dalla Stanza Vuota. Storia di un Grido d’Aiuto tra Like, Indifferenza e un Sistema che non ha Ascoltato

Un Silenzio Assordante: La Fine della Diretta di Thiago

Il 21 luglio 2025, il flusso incessante di video si è interrotto. Thiago Elar, un ragazzo di 27 anni, è morto. Per mesi, il suo profilo TikTok era stato un diario pubblico, una finestra aperta sulla sua sofferenza, trasmessa dal letto di una struttura sanitaria a Treviglio, in provincia di Bergamo. La sua community, una folla digitale di oltre 145.000 follower, lo guardava lottare, alternando messaggi di supporto a critiche feroci. La notizia della sua morte, diffusa prima dagli utenti e poi confermata dalla famiglia, ha trasformato il suo profilo in un memoriale improvvisato, un luogo di lutto virtuale per una vita consumatasi sotto gli occhi di tutti, eppure in una solitudine abissale.  

La storia di Thiago Elar non è solo la cronaca di una tragica e prematura scomparsa. È uno specchio che riflette le fratture più profonde della nostra società contemporanea. È la storia di un cortocircuito devastante tra la visibilità estrema offerta dai social media e l’invisibilità reale di fronte alle istituzioni preposte alla cura. È il racconto di una ricerca disperata di connessione umana all’interno di un sistema algoritmico che può trasformare il dolore in intrattenimento, il grido d’aiuto in contenuto virale. È, infine, la parabola di una lotta per l’affermazione della propria identità più intima, quella di un ragazzo transgender, scontratasi con un sistema che fatica a riconoscerla, fino all’ultimo, definitivo affronto.

Questo articolo intende andare oltre la notizia, per esplorare chi fosse Thiago al di là del suo personaggio social, per analizzare il ruolo profondamente ambivalente che la piattaforma TikTok ha giocato nella sua vita, non solo come megafono ma anche come potenziale cassa di risonanza della sua patologia. Affronteremo le controversie che hanno circondato la sua figura, senza sconti ma con la dovuta complessità, per poi indagare le possibili, drammatiche falle sistemiche – sanitarie, sociali e culturali – che hanno contribuito a un epilogo che in molti, forse, avevano previsto, ma che nessuno è riuscito a evitare.

Chi Era Thiago Elar? Oltre lo Schermo di TikTok

Nato a Bergamo e residente a Osio Sotto, Thiago Elar aveva 27 anni quando la sua vita si è spenta. L’annuncio della sua morte, avvenuta per “cause naturali” secondo le fonti, è stato dato dalla madre e dai nonni, le stesse figure familiari che spesso erano apparse, in forme complesse e talvolta conflittuali, nei suoi racconti online. Ma per comprendere la sua storia, è necessario partire dal nucleo della sua identità, un punto di orgoglio e, al contempo, di immensa vulnerabilità.  

Thiago era un ragazzo transgender. Nato con il nome di Lisa El Arbaoui, aveva scelto “Thiago” per rappresentare sé stesso, per allineare il suo essere al modo in cui il mondo lo chiamava. Questa scelta, un atto fondamentale di autodeterminazione, è diventata la chiave di lettura più dolorosa della sua intera vicenda, specialmente dopo la sua morte. Nel necrologio ufficiale, pubblicato sul portale “Il Commiato”, il suo nome scelto è stato cancellato, sostituito da quello che per lui rappresentava un passato da cui era fuggito. Il testo recitava: “Sei volata in cielo tra gli Angeli Lisa El Arbaoui”.  

Questo gesto, apparentemente una formalità burocratica, è stato percepito dalla sua community come l’ultimo, crudele atto di negazione. I commenti dei suoi follower si sono riempiti di rabbia e dolore, non solo per la perdita, ma per quello che hanno visto come un tradimento della sua memoria. Un utente ha scritto, sintetizzando il sentimento di molti: “Che dispiacere leggere che non è stato rispettato il suo volere di essere chiamato Thiago, riposa in pace. Spero tu possa trovare la pace che questa terra non ti ha dato”. La battaglia per il suo nome è diventata così una metafora potente della sua intera esistenza. La sua lotta quotidiana, documentata ossessivamente su TikTok, non era solo contro la malattia, ma anche per essere visto e riconosciuto per chi era veramente: Thiago. L’uso del suo  

deadname nel momento dell’addio definitivo ha rappresentato il fallimento finale del mondo “reale” e istituzionale nel validare quell’identità che lui aveva così disperatamente cercato di affermare online. La sua storia è quindi la storia di una continua richiesta di riconoscimento, in gran parte disattesa, che evidenzia il divario profondo tra l’accettazione trovata in una community virtuale e l’incomprensione dei sistemi offline, familiari e sociali.

La sua notorietà era nata proprio da questa cruda esposizione. Con quasi 150.000 follower, Thiago era diventato un punto di riferimento, un simbolo tragico per molti. I suoi video, girati quasi esclusivamente dal letto della struttura psichiatrica dove era ricoverato, erano un racconto senza filtri della sua battaglia contro un grave disturbo del comportamento alimentare e contro i demoni della sua mente. Era diventato un “influencer del dolore”, una figura che attirava attenzione non per ciò che faceva, ma per ciò che subiva.  

Il Diario Digitale dal Letto d’Ospedale: Testimonianza o “Trauma Porn”?

La produzione di contenuti di Thiago era incessante. Pubblicava con una frequenza impressionante, a volte fino a dieci o venti video al giorno, trasformando il suo profilo in un flusso di coscienza quasi in tempo reale. Stilisticamente, i video erano tutti molto simili: lui, sdraiato o seduto sul letto della clinica, il volto sempre più scavato a testimoniare il progredire della malattia, che si rivolgeva direttamente alla telecamera. I toni oscillavano selvaggiamente, passando da momenti di disperazione cupa e appelli strazianti a sprazzi di inaspettata leggerezza, quasi a voler normalizzare una realtà che di normale non aveva nulla.  

Nei suoi video parlava di tutto: della sua malattia, del sentirsi prigioniero, del rapporto che descriveva come conflittuale con la sua famiglia. Lanciava appelli diretti, carichi di un’urgenza quasi insopportabile. Indimenticabili, per chi lo seguiva, le sue parole rivolte alla madre: “Ciao mamma, è tuo figlio che ti parla: guarda in che condizioni sono mamma. Io non voglio andare al creatore in un letto d’ospedale. Non voglio, non me lo merito”. Questi video, che hanno raggiunto milioni di visualizzazioni, lo hanno reso un fenomeno virale. Ma proprio questa viralità solleva una questione etica complessa e scomoda, che ci costringe a interrogarci sulla natura di ciò che stavamo guardando. Era testimonianza o era diventato qualcos’altro?  

Per analizzare questo fenomeno, è utile introdurre il concetto di “trauma porn”. Questo termine descrive la spettacolarizzazione del dolore e della sofferenza che, pur potendo nascere da un’autentica esigenza di condivisione, rischia di trasformarsi in un prodotto destinato al consumo voyeuristico di un pubblico. Il “trauma porn” oggettifica la sofferenza, la riduce a un contenuto emotivamente scioccante che genera engagement – like, commenti, condivisioni – ma raramente porta a una comprensione profonda o a un’azione concreta. Anzi, può essere re-traumatizzante per chi vive esperienze simili e finisce per cooptare il dolore di una persona per l’intrattenimento di massa.  

La storia di Thiago si colloca esattamente in questa zona grigia. Non c’è dubbio che i suoi video fossero, alla radice, un grido d’aiuto disperato e autentico. Tuttavia, la dinamica della piattaforma ha inevitabilmente alterato la natura di quel grido. La viralità dei suoi contenuti ha generato non solo supporto, ma anche un’ondata di contenuti secondari: meme, critiche, parodie, video di reazione. Il suo dolore, decontestualizzato e riproposto all’infinito, è diventato uno spettacolo. La piattaforma, premiando con la visibilità i contenuti più emotivamente carichi, ha incentivato, forse involontariamente, questa trasformazione.  

TikTok, per Thiago, è stato contemporaneamente un megafono e una gogna, un palcoscenico e una gabbia. Gli ha fornito una community, un senso di esistenza e di ascolto che evidentemente non trovava altrove. Ma, allo stesso tempo, lo ha esposto a una forma di consumo del suo dolore che rientra pericolosamente nella definizione di “trauma porn”. La sua autentica e disperata richiesta di aiuto è stata fagocitata da un’economia dell’attenzione che non è progettata per curare, ma per massimizzare le interazioni. In questo processo, la persona “Thiago” rischiava di scomparire dietro al “personaggio Thiago”, il tiktoker della sofferenza.

La Doppia Spirale: Salute Mentale e l’Algoritmo di TikTok

Per comprendere appieno la tragedia di Thiago, non basta analizzare i contenuti che produceva; è fondamentale esaminare il sistema che glieli riproponeva. Thiago era un paziente clinico, ricoverato da oltre un anno in una struttura psichiatrica per un grave disturbo del comportamento alimentare (DCA), identificato come anoressia, e per altre patologie psichiatriche concomitanti. La sua condizione mentale era il prisma attraverso cui viveva il mondo, e TikTok è diventato il suo specchio.  

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L’algoritmo di TikTok è notoriamente efficace nel creare un’esperienza utente personalizzata e immersiva, un “flow” che massimizza il tempo di permanenza sulla piattaforma. Lo fa mostrando contenuti simili a quelli con cui l’utente ha interagito in precedenza. Se da un lato questo può creare community di interesse, dall’altro può generare pericolose “camere dell’eco” o “rabbit holes”, soprattutto per gli utenti vulnerabili. La ricerca accademica ha iniziato a documentare con preoccupazione questo fenomeno. Studi specifici hanno dimostrato che l’algoritmo di TikTok può creare un ambiente digitale tossico per chi soffre di disturbi mentali. Una ricerca ha rivelato che gli utenti con sintomi di disturbi alimentari ricevono un numero esponenzialmente più alto di contenuti relativi a diete estreme, aspetto fisico e comportamenti alimentari dannosi rispetto a un gruppo di controllo sano. Le cifre sono allarmanti: un aumento del 335% per i video sulle diete e un incredibile +4343% per i contenuti pro-DCA. L’esposizione a questo tipo di materiale è direttamente collegata a un peggioramento dell’immagine corporea, a un’aumentata insoddisfazione e a un’intensificazione dei sintomi patologici.  

Applichiamo questo modello a Thiago. Postando incessantemente sulla sua malattia, ha inviato un segnale forte e chiaro all’algoritmo: questo è il mio “interesse”. È quindi altamente probabile che la sua “For You Page”, il feed personalizzato di TikTok, fosse inondata di contenuti che, anche quando mascherati da messaggi “pro-recovery”, mantenevano un focus ossessivo sul corpo, sul cibo, sul peso e sulla malattia. In questo modo, Thiago si è trovato intrappolato in un doppio loop: un ciclo patologico interno, dettato dal suo disturbo, e un ciclo algoritmico esterno che lo rispecchiava e lo rinforzava costantemente.

La sua storia non è un caso isolato. Il fenomeno degli influencer che documentano la propria malattia fino alla morte è una tendenza globale. Storie come quella di Anna Grace Phelan, una diciannovenne che ha raccontato la sua battaglia contro il cancro al cervello , o di Tanner Smith, che ha annunciato la propria morte per cancro al colon in un video preregistrato , mostrano come la spettacolarizzazione della malattia sia diventata una categoria di contenuto sui social media, con esiti spesso tragici.  

In questo contesto, non si può più parlare di una semplice correlazione tra l’uso dei social e i problemi di salute mentale. Nel caso di Thiago, è legittimo ipotizzare una dinamica più complessa e sinistra, in cui la tecnologia algoritmica ha agito quasi come un “co-patologo”. La natura della sua malattia, caratterizzata da pensieri ossessivi e comportamenti ripetitivi, si è allineata perfettamente con la meccanica della piattaforma, progettata per creare cicli di feedback e rinforzare gli interessi esistenti. L’algoritmo ha “imparato” la sua malattia e gliel’ha servita di nuovo, in un flusso infinito di stimoli che mantenevano il suo cervello agganciato ai temi patologici. Questo ha reso la guarigione, o anche solo la possibilità di prendere le distanze mentali dal disturbo, un’impresa quasi impossibile. Era intrappolato in uno specchio digitale che non solo rifletteva la sua prigione, ma ne rinforzava le sbarre.

Un Grido Controverso: Tra Solidarietà, Accuse e Solitudine

La morte di Thiago ha scatenato un’ondata emotiva potente e contraddittoria. Da un lato, i social media sono stati inondati da messaggi di cordoglio, affetto e dolore. Una frase, in particolare, è diventata un mantra ripetuto in centinaia di commenti: “Ora sei libero”. Questa espressione, carica di un sollievo tragico, racchiude in sé tutta la complessità della sua storia. Libero da cosa? Dalla malattia che lo consumava, dalla sofferenza psichica, da un corpo che sentiva estraneo, o da una società e un sistema che non sono stati in grado di aiutarlo? Forse da tutto questo insieme.  

Accanto al dolore, però, è emersa anche la rabbia. Molti utenti hanno puntato il dito contro l’ipocrisia di chi lo compiangeva da morto dopo averlo ignorato, deriso o criticato da vivo. Un commento su TikTok riassume questo sentimento con una lucidità brutale: “ora cosa siete diventati? i suoi migliori amici?? sono tutti dalla sua parte ma prima chi c’era quando chiedev aiuto? nessuno perché lo sottovalutavate”. Questa accusa evidenzia una verità scomoda sulla natura effimera e spesso superficiale del supporto online.  

La narrazione di Thiago, infatti, non è mai stata univoca. Accanto alla figura del ragazzo fragile e bisognoso d’aiuto, alcune fonti giornalistiche hanno riportato l’esistenza di un lato oscuro, fatto di accuse e dubbi. Si parlava di presunte raccolte fondi private e poco trasparenti, di accuse di manipolazione e di un passato difficile, segnato da storie di tossicodipendenza e presunte violenze nei confronti dei familiari. Non è chiaro cosa fosse vero e cosa fosse esagerato dalla logica polarizzante del web. L’unico dato certo è che queste voci hanno creato una profonda spaccatura nella percezione pubblica, alimentando commenti discordanti e sospetti. Probabilmente per arginare questo flusso di negatività, lo stesso Thiago aveva scelto di disattivare i commenti sotto i suoi ultimi post, chiudendosi in un silenzio che lo proteggeva ma che, al contempo, lo isolava ancora di più.  

Questa dualità – Thiago come martire innocente contro Thiago come truffatore manipolatore – è un prodotto tipico della logica dei social media, che tende a semplificare le figure pubbliche riducendole ad archetipi contrapposti. Thiago è rimasto intrappolato in questa dicotomia. La sua complessa e sofferente umanità, fatta inevitabilmente di luci e ombre come quella di chiunque, è stata appiattita. La sua richiesta di aiuto è stata messa in discussione e delegittimata a causa delle accuse sul suo passato, rendendo impossibile un supporto autentico e sfumato. O si era “con lui” incondizionatamente, o si era “contro di lui”. La vera tragedia, forse, sta proprio qui: la sua sofferenza era innegabilmente reale, indipendentemente dai suoi possibili errori. La difficoltà del pubblico e dei media di tenere insieme questi due aspetti – la vulnerabilità e la complessità – ha creato un ambiente tossico in cui il suo grido poteva essere facilmente ignorato, lasciandolo ancora più solo, in una stanza di clinica, con 150.000 follower e nessuno a cui aggrapparsi davvero. Il suo ultimo video, in cui parlava di un imminente incontro con i medici che lo avrebbero mandato “in un posto migliore”, letto oggi, suona come una tragica premonizione, l’ultimo, disperato appello di chi si sentiva arrivato al capolinea.  

Oltre Thiago: Le Faglie del Sistema per le Persone Transgender e con Disturbi Mentali

La storia di Thiago Elar non può essere ridotta a un “caso social”. Prima di essere un tiktoker, Thiago era un paziente, un cittadino inserito in un sistema sanitario reale, con le sue regole, le sue procedure e le sue evidenti criticità. La sua morte, quindi, deve essere letta anche come il possibile esito di un fallimento sistemico multiplo. La sua esposizione mediatica su TikTok non è la causa del suo decesso, ma piuttosto un sintomo urlato del fallimento dei sistemi preposti alla sua cura.

Il primo livello di analisi riguarda il sistema sanitario italiano per le persone transgender. Sebbene l’Italia sia stata uno dei primi Paesi a legiferare in materia con la Legge 164 del 1982, questa normativa è oggi considerata datata e il percorso di affermazione di genere rimane irto di ostacoli. Le persone transgender affrontano barriere significative: un’indagine dell’Agenzia per i diritti fondamentali dell’UE (FRA) ha rilevato che il 34% delle persone trans ha subito discriminazioni nel settore sanitario. A questo si aggiungono i costi elevati per trattamenti non sempre coperti dal Sistema Sanitario Nazionale, liste d’attesa infinite per gli interventi chirurgici e una diffusa mancanza di formazione specifica per il personale medico e psicologico. L’Italia è indietro nella ricerca sulla salute delle persone LGBTI e, sebbene esistano centri di eccellenza e linee guida come quelle dell’Osservatorio Nazionale sull’Identità di Genere (ONIG), la loro applicazione sul territorio è disomogenea e spesso insufficiente.  

Il secondo livello di criticità riguarda il sistema di salute mentale. Thiago era ricoverato in una struttura psichiatrica a Treviglio, in provincia di Bergamo. La Lombardia, come altre regioni, dispone di una rete di servizi organizzata in Dipartimenti di Salute Mentale e delle Dipendenze (DSMD), che include Centri Psico Sociali (CPS) per l’assistenza territoriale, Servizi Psichiatrici di Diagnosi e Cura (SPDC) per le acuzie in ospedale, e strutture residenziali riabilitative. Esistono anche centri specifici per i Disturbi del Comportamento Alimentare (CDCA). La domanda cruciale, però, è se questi sistemi siano in grado di comunicare tra loro e di offrire un approccio integrato. Thiago era un paziente complesso: era un ragazzo transgender, con un grave disturbo alimentare e con problemi psichiatrici. La sua condizione si trovava all’intersezione di almeno tre aree di vulnerabilità, ognuna delle quali richiede competenze specifiche.  

È in questa intersezione che si è consumato il dramma. È plausibile che Thiago sia “caduto tra le crepe” di sistemi non preparati a gestire una multi-problematicità così specifica. La sua incessante attività su TikTok, i suoi appelli disperati, le sue denunce di sentirsi maltrattato all’interno della struttura dove avrebbe dovuto essere curato , possono essere interpretati come il sintomo più evidente di questo scollamento. Si è rivolto in modo così massiccio e totalizzante al mondo virtuale perché, con ogni probabilità, non si sentiva visto, ascoltato o adeguatamente curato dalle istituzioni del mondo reale.  

La sua morte, quindi, non è il fallimento di un singolo individuo, né può essere imputata unicamente alla piattaforma digitale. È l’esito tragico di un fallimento a cascata: un sistema di salute mentale forse sopraffatto o inadeguato a gestire la sua complessità, un sistema sanitario ancora largamente impreparato sulle questioni transgender, una società che fatica a comprendere la sofferenza psichica e l’identità di genere, e infine una piattaforma digitale che, invece di offrire una soluzione, ha finito per monetizzare la sua disperazione. La storia di Thiago è un atto d’accusa silenzioso ma potentissimo verso tutti questi livelli.

Lo Specchio Infranto: Cosa ci Resta della Storia di Thiago Elar

Ripercorrere la vita e la morte di Thiago Elar significa guardare dentro uno specchio infranto, che restituisce un’immagine frammentata e dolorosa di noi stessi e del tempo in cui viviamo. La sua storia non offre risposte facili né colpevoli univoci. Incolpare solo TikTok, solo la famiglia, solo il sistema sanitario o solo Thiago stesso sarebbe una semplificazione ingiusta, un modo per archiviare la sua tragedia senza lasciarci interrogare. La responsabilità è diffusa, sistemica, e si annida nelle pieghe delle nostre abitudini digitali e delle nostre mancanze collettive.

La sua vicenda ci ha mostrato come, nell’era della connessione totale, si possa morire di una solitudine abissale. Ci ha sbattuto in faccia la contraddizione di un mondo in cui un grido d’aiuto può diventare virale, accumulare milioni di visualizzazioni, eppure rimanere fondamentalmente inascoltato dove conta davvero: nelle stanze della cura, nei corridoi delle istituzioni, nel cuore delle relazioni umane. Thiago era una persona complessa, la cui sofferenza è stata appiattita dalla logica binaria dei social, trasformata in “trauma porn” per un’audience affamata di emozioni forti. Il suo cervello, già assediato dalla malattia, ha trovato nell’algoritmo un complice involontario, un “co-patologo” che ne ha alimentato le ossessioni.

La domanda che la sua storia ci lascia in eredità è profonda e scomoda. Cosa dice di noi il fatto che abbiamo trasformato la sua agonia in un contenuto da scrollare? Cosa dice della nostra società il fatto che un ragazzo si sia sentito costretto a cercare salvezza in un’app, perché i sistemi deputati a proteggerlo gli sembravano una prigione? Qual è la nostra parte in tutto questo? Come utenti che consumano e commentano, scegliendo l’empatia o il giudizio in un clic. Come cittadini che hanno il diritto e il dovere di pretendere servizi sanitari adeguati, inclusivi e competenti. Come esseri umani che, di fronte a uno specchio infranto, possono scegliere di vedere solo il proprio riflesso o di provare a ricomporre i frammenti di una storia che ci riguarda tutti. L’ultimo video di Thiago Elar è finito, ma le domande che la sua vita e la sua morte sollevano sono appena iniziate.

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